Il tema dello studio dei cantautori a scuola è da tempo dibattuto. La musica leggera, unita ad una scrittura autoriale, è quasi universalmente riconosciuta di valenza sociale. A tal punto che più di qualcuno ha proposto l’inserimento del cantautorato italiano tra le attività annuali scolastiche. Non sono mancati dei progetti specifici in cui, all’ascolto di un brano, sono seguite discussioni in classe evidenziandone peculiarità e tratti caratteristici, sia di tipo musicale che letterario. A tal proposito, il riconoscimento del Premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan nel 2016 ha definitivamente sancito la portata culturale della canzone d’autore. Si propone, dunque, una rassegna in cui verranno presentati i principali cantautori della storia italiana alla stregua degli autori che si studiano tradizionalmente tra i banchi. E il primo protagonista non può che essere Fabrizio De André.
Breve biografia di Fabrizio De André
Fabrizio De André nasce a Genova il 18 febbraio 1940. Ad appena un anno di vita, si rifugia con la famiglia in provincia di Asti durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Un tema, quello bellico, che segnerà la sua produzione artistica, influenzata dal ritorno dello zio Francesco alla fine del secondo conflitto mondiale, sopravvissuto a un campo di concentramento, ma ritornato colpito nel fisico e nell’animo.
La personalità fu fin dall’infanzia molto esuberante. Diversi, infatti, i contrasti con i professori durante il primo periodo scolastico. Nonostante ciò, negli anni ’60, per un breve periodo ricoprirà l’incarico di vicepreside in un istituto privato di proprietà del padre. Un altro aspetto ricorrente della produzione di Faber, da non credente, è quello religioso. Durante gli studi del Liceo Classico, furono diversi gli scambi con il suo insegnante di religione, don Giacomino Piana, su temi riguardanti la cristianità. Nel 1961 sposa Enrica Rignon, con cui avranno un figlio, Cristiano, anche lui in futuro cantautore. A metà degli anni ’70 conosce invece Dori Ghezzi, con cui si sposerà nel 1989 e con cui avranno una figlia, Luisa Vittoria, anch’essa impegnata in ambito musicale. Morì a Milano l’11 gennaio 1999, a causa di una malattia polmonare diagnosticata pochi mesi prima.
Lo stile poetico e musicale di Fabrizio De André
Sebbene sia considerato il padre del cantautorato italiano, Fabrizio De André ha collaborato con tantissimi artisti. Come è intuibile, la sua predilezione era per i testi, rispetto ad una componente musicale molto essenziale, seppur mai banale e, anzi, piena di interessanti guizzi. Le sue canzoni sono tipicamente delle storie raccontate, tanto è vero che raramente è rinvenibile il ritornello tipico delle strutture musicali leggere, soprattutto nel primo periodo. Principalmente accompagnato dalla chitarra, ha utilizzato in modo iconico la sua profondità vocale. Considerato il “cantautore degli ultimi”, ha dato spazio nelle sue canzoni a emarginati, ribelli, tossicodipendenti, prostitute, poveri. Fu la conoscenza di questa umanità, troppo spesso dimenticata, che lo condusse a fornire un quadro rappresentativo di un’altra faccia del mondo.
La scuola genovese e la paura del pubblico
Convenzionalmente considerato il massimo esponente del cantautorato italiano, viene in particolare designato come il più importante rappresentante della scuola genovese. In realtà, lui stesso riteneva che “La scuola genovese non esiste. Sarebbe così se fossimo decollati uno sulla scia dell’altro. Invece ognuno si è fatto i cavoli suoi. Avevamo in comune la scelta di una vita scapestrata, conquistata dando un calcio alla famiglia”. Il suo legame con Genova è comunque saldo ed è considerato uno dei più grandi della storia della città. Nel 1984 pubblicherà un intero album, Creuza de mä, interamente in genovese, ritenuto uno dei lavori più preziosi della cultura cantautorale italiana.
Fabrizio De André fu atipico anche nello svolgimento della stessa professione di cantautore. Nonostante avesse già inciso numerosi album, fino al 1975 non si esibì mai in pubblico. Superò questo scoglio con il trascorrere degli anni, sebbene i suoi concerti siano stati spesso caratterizzati dall’effetto penombra, sintomo della sua timidezza, paradossale rispetto alla sua esuberanza sociale e artistica.
Il concept album
Nella sua attività utilizzò il concept album come principale strumento comunicativo. In Italia fu uno dei pionieri del genere. Dopo aver già pubblicato tre tra i brani più celebri della sua produzione, Bocca di rosa, La guerra di Piero e Via del campo, nel 1968 diede alle stampe l’album “Tutti morimmo a stento” e soprattutto “La buona novella” nel 1970. Quest’ultimo partì dalla lettura dei Vangeli apocrifi per narrare l’aspetto più umano di alcune figure bibliche. È considerato uno dei capisaldi della sua attività musicale. “Non al denaro non all’amore né al cielo” fu invece l’album del 1971, in cui affrontò i temi dell’invidia e della scienza.
Le opere da proporre in classe
Ma quali sono i brani da poter proporre agli studenti? Dopo la panoramica sulla vita, la poetica e le opere di Fabrizio De André, dovrebbe essere abbastanza chiaro che la scelta sarebbe assolutamente vasta e impossibile da ridurre in poche righe. Di seguito si propongono alcuni estratti da alcune sue canzoni che potrebbero meritare un’analisi e generare una discussione in classe. Si precisa che lo studio dei cantautori sarebbe affrontabile preferibilmente nelle classi del triennio delle scuole secondarie di II grado, in quanto occorrerebbe un certo grado di maturità per poter ragionare criticamente sul valore letterario dei testi.
Estratti dalle canzoni di Fabrizio De André
Ricordi sbocciavan le viole, con le nostre parole
“Non ci lasceremo mai, mai e poi mai”,
vorrei dirti ora le stesse cose
ma come fan presto, amore, ad appassire le rose
così per noi
l’amore che strappa i capelli è perduto ormai,
non resta che qualche svogliata carezza
e un po’ di tenerezza.
(La canzone dell’amore perduto, 1966)
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
(La guerra di Piero, 1964)
Si sa che la gente dà buoni consigli
Sentendosi come Gesù nel tempio
Si sa che la gente dà buoni consigli
Se non può più dare cattivo esempio
(Bocca di Rosa, 1967)
C’è una donna che semina il grano
Volta la carta si vede il villano
Il villano che zappa la terra
Volta la carta viene la guerra
Per la guerra non c’è più soldati
A piedi scalzi son tutti scappati
Angiolina cammina cammina sulle sue scarpette blu
Carabiniere l’ha innamorata, volta la carta e lui non c’è più
Carabiniere l’ha innamorata, volta la carta e lui non c’è più
(Volta la carta, 1978)
Io nel vedere quest’uomo che muore
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l’amore
(Il testamento di Tito, 1970)